venerdì 8 agosto 2014

Un'idea del cazzo.




Sono seduta su un divano color verde bottiglia. Diverse bruciature di sigaretta, piccole e tonde, disegnano costellazioni sul velluto consunto. Con un dito le percorro, pensando al Sagittario.

Sasha mi passa una bottiglia di birra, che è appunto color del divano. Se sia venuto prima il divano o la bottiglia questo non lo so, un po' come la storia dell'uovo o della gallina. 

Sasha è Sasha Grey. Sta seduta alla mia destra con le gambe piegate sotto il sedere. Ha addosso una maglia degli Iron Maiden, con un buco piccino sotto l'ascella sinistra.

Mi dice: “Mi annoio.”
Le rispondo: “Io pure.”

Sbuffiamo. La televisione ci vomita addosso un programma nonsense in cui un ciccione giapponese deve completare un percorso a ostacoli. Ci sono le risate pre-registrate, e io inevitabilmente ripenso a quel passo di un libro di Chuck Palahniuk – era Palahniuk? - in cui si dice che le risate nei telefilm appartengono a gente morta da un pezzo. Ride bene chi ride ultimo.

Suonano alla porta: è il ragazzo delle pizze. Ha addosso una maglia bianca con righe arancioni e un cappellino coordinato. Ovviamente è molto sorpreso dal fatto che Sasha Grey gli stia allungando un paio di banconote.

Le dice: “Bella maglietta.”
Lei risponde: “Grazie.”
E chiude la porta.

La pizza è tagliata a fette, ma bisogna mettere un dito sul formaggio fuso per staccarla dal cartone. Brucia. Impreco, e Sasha ride.

Penso che sono con Sasha Grey e, nonostante siamo evidentemente amiche in questo sogno, altrimenti non saremmo qui su un divano color verde bottiglia a mangiare pizza nel cartone, mi sembra stupido non chiederle qualcosa sulla sua carriera.

Le chiedo: “Ma senti un po', com'è lavorare nel porno?”
Mi risponde: “Un lavoro come un altro. Ma devi farti sempre la ceretta.”

Penso a questa cosa della ceretta e a io che non posso farla perché mi si spaccano i capillari e le gambe mi diventano uno spettacolo pirotecnico.

Le dico: “Io la ceretta non la posso fare.”
Mi risponde: “Sarebbe un problema.”

Il ciccione giapponese nel programma alla televisione sta saltando su piccole piattaforme di gomma su una piscina. Ovviamente alla terza cade nell'acqua. Le risate si fanno fortissime. Mi chiedo se siano risate di giapponesi o se siano risate standard, registrate in qualche studio di Hollywood. Più le ascolto, più mi sembra di non aver mai sentito qualcuno ridere in vita mia.
Sasha si gira verso di me.

Mi dice, con la bocca piena: “Questo programma fa schifo.”

Stavolta non dico niente, ma annuisco. Mi sono bruciata il palato con il formaggio bollente e ho gli occhi pieni di lacrime. Una rotola giù per la guancia e si schianta senza speranza su un angolo del cartone della pizza. La guardo finché non s'asciuga. Penso a tutte le lacrime evaporate nella storia dell'umanità. Ci si potrebbe riempire piscine, oceani, laghetti montani, innumerevoli taniche di benzina, chissà quanti cartoni di succo d'arancia. Dovremmo trovare un modo per riciclare le lacrime.

Lo dico a Sasha. Mi guarda per un attimo.

“Ma sai che è proprio un'idea del cazzo,” mi dice, mentre mi sveglio.

mercoledì 18 giugno 2014

La cosa più disgustosa che abbia mai visto.

Nella sala d'aspetto del dottore c'è una pianta di plastica dalle foglie larghe, uguale in tutto e per tutto alla fantasia del vestito di un'anziana seduta di fianco a me. Guardo le sue mani grinzose artigliare una borsa di plastica piena di fogli e scatolette di medicinali vuoti, su cui ha annotato le dosi con grafia tremula e incerta. Guardo le mie mani, la pelle chiara tesa e tonica, le unghie rosa come piccole mandorle, e penso che anche loro un giorno diventeranno di cartapesta.

Non mi sento tanto bene. Mi sono svegliata con una sorta di nausea che mi ha accompagnata per tutta la mattina. Mi sono guardata allo specchio e ho visto il riflesso di una persona stanca e abbattuta, un po' come gli alberi che si affacciano dai cavalcavia delle autostrade. Mentre mi vestivo, ho avuto l'impressione strana e sgradevole che il sangue nelle mie vene si fosse fatto improvvisamente più denso e faticasse a scorrere. Potevo sentire il battito del cuore rimbombare nelle mie orecchie, e all'improvviso mi è sembrato tutto così estraneo e fittizio che ho dovuto smettere di pensare per non avere le vertigini.

Mentre aspettavo l'autobus un bambino si è messo a urlare che non voleva andare a casa. La madre ha cercato di farlo smettere prima con le buone, poi con un ceffone. Lui ha continuato a lamentarsi finché l'autobus non è arrivato e la madre, sconfitta, gli ha rivolto uno sguardo carico di odio sottile. Appena ha incrociato il mio ha abbassato gli occhi, piena di vergogna all'idea che un estraneo avesse captato quell'intimo desiderio di solitudine che, da madre, si sente in imbarazzo a provare. Una volta salita si è seduta lontana da me, accarezzando ostentatamente i capelli ricci del figlio.

La segretaria del dottore ha una voce metallica che mi ricorda quei messaggi pre-registrati dei servizi telefonici. È una donna alta e massiccia, dalle mani grandi e lo sguardo crudele. Batte sulla tastiera di un vecchio computer con insolita ferocia, scrutando di tanto in tanto la fila di persone sedute su queste scomode sedie di plastica verde.

Ad un certo punto, il mio orecchio destro comincia a fischiare in maniera fastidiosa. All'inizio è solo un'eco lontana, che si fa mano a mano più insistente. Mi porto una mano all'orecchio e mi sembra che si muova, un po' come quando i denti da latte ballano prima di ritrovarteli in una mano, piccoli e puntellati di sangue rossastro. Il fischio diventa sempre più acuto e diventa un trapano nella tempia. Mi accascio sulla sedia e gemo. La signora accanto a me dal vestito uguale alla pianta mi appoggia una mano incartapecorita sulla gamba.

“Tutto bene, cara?”

Le parole mi perforano il timpano come chiodi. Scuoto la testa e mi accorgo che mi sudano le mani. Nessuno a parte la signora sembra prestare attenzione a me, e presto anche lei ritorna a fissare il vuoto come se niente fosse.

Stringo l'orecchio tra due dita e mi accorgo che la pelle si è raggrinzita a tal punto da sembrare di carta. Tiro leggermente e l'orecchio si stacca come pelle morta. Mi ritrovo con l'orecchio in mano, grigio e privo di vita. Nessuno si accorge di me, a parte la segretaria che mi guarda con aria schifata.

“Non buttarlo nel cestino, è la cosa più disgustosa che abbia mai visto,” mi dice, indicando un piccolo cilindro di metallo alla sua destra. Rimango lì, mentre il fischio finalmente si placa, con l'orecchio in grembo e uno spiacevole sapore di ruggine in bocca.

Finché il dottore non mi chiama, e la sua voce piano piano si sovrappone con quella insistente della sveglia

sabato 1 febbraio 2014

Schegge.



Quando ero piccola, i miei genitori mi portavano al mare tutte le estati. Lo stabilimento balneare dove andavamo non era grande, anzi, era piuttosto piccolo; le cabine si susseguivano l’una accanto all’altra formando un’ampia striscia di bianco, sormontata da una più sottile rosso cupo; pensavo sempre che somigliassero a un’enorme, sinistra gengiva. Si trovavano su un piano rialzato di legno costruito secondo il principio delle palafitte direttamente sulla sabbia; per andare in spiaggia bisognava scendere dei gradini di legno e non era raro infilarsi una scheggia nel tallone, che poi veniva tolta con un ago sterilizzato alla bell’e meglio con la fiamma di un accendino.

Stanotte mi trovo qui, appoggiata alla ringhiera arrugginita che si affaccia sulla spiaggia e da lì sul mare. Il cielo è grigio e l’acqua sembra un’infinita distesa di mercurio argentato. C’è un vento che porta via e i capelli mi danzano davanti al viso, si infilano in bocca, li scosto con la mano ma ritornano imperterriti. Anche il mio vestito si gonfia e si sgonfia come il petto di un asmatico. Penso. Guardo giù, verso la spiaggia: c’è un cane.
È un bastardo un po’ emaciato; il pelo è grigio, a tratti così rado che si intravede la pelle rosa tesa sulle ossa. Ha il muso affilato e sofferente. Si muove silenzioso sulla sabbia, ogni tanto annusa una conchiglia portata a riva da una mareggiata, la addenta, se la mette in bocca, poi la sputa. Gli dico: “Che ci fai qui?” ma mi ignora, quasi come se volesse sottolineare che io lì non c’entro proprio nulla. Ad un tratto si mette a correre verso le onde: ha visto qualcosa. Improvvisamente si spoglia di quella spossatezza che lo ha caratterizzato fino a un secondo fa e comincia a combattere con qualcosa sotto le onde. Si immerge nell’acqua, poi riaffiora, scuote la testa, si immerge di nuovo. Poi, finalmente, riaffiora. Tra i denti stringe qualcosa, forse un pesce. È grosso, per essere arrivato così a riva. Il muso bagnato del cane si tinge di rosso e brandelli di carne biancastra gli si incastrano tra i peli. Mi guarda direttamente negli occhi per la prima volta. Torna a riva, scodinzola ma non di contentezza; è teso. Lascia cadere il pesce e poi corre via.

Io scendo le scale di legno. Sono a piedi nudi e mi si infila una scheggia sotto il tallone. Penso – dove lo trovo un ago, adesso? Continuo a scendere, e ad ogni passo la scheggia si infila più in profondità. Mi viene in mente che da bambina mi dicevano che le schegge non rimosse potevano risalire la carne, infilarsi in una vena e da lì raggiungere il cuore. Che brutto modo di morire, penso. Che brutto modo.

Raggiungo la spiaggia. La giacca mi sbatte contro i fianchi e il vestito sotto continua a turbinare. Mi chino sul pesce. Sembra un cucciolo di squalo, anche se non saprei dire esattamente che cosa sia. Dalle ferite provocate dai denti del cane fuoriesce una brodaglia rossastra, mista a pezzi di budella. Lo guardo affascinata. Ad un tratto squilla il telefono, ma lo sento lontano. Mi tocco la tasca della giacca e mi rendo conto che non è più lì. Mi giro di scatto e mi accorgo che l’intera spiaggia alle mie spalle è disseminata di meduse. Alcune sono secche, paiono sacchetti di plastica abbandonati sulla sabbia. Altre sono ancora gonfie d’acqua, sembrano di gelatina, pare respirino ancora. Ce ne sono centinaia, forse migliaia. Risalgo faticosamente la spiaggia e cerco di localizzare il telefono ascoltando la suoneria. Finalmente lo trovo, appoggiato su una medusa bluastra con striature rosa. Lo prendo in mano e le dita cominciano immediatamente a bruciare e a coprirsi di bolle rosse e dolorose.

Mi giro e
Mi ritrovo seduta al tavolo di cucina della vecchia casa dei miei genitori, quella in cui sono cresciuta. C’è un silenzio irreale. Davanti a me sta la mia gatta – come fa ad esserci? È morta da più di cinque anni. Ho in mano una penna e scrivo un sacco di numeri su un’agenda, una di quelle che si comprano a pochi soldi dal tabacchino e paiono quaderni; invece, se le apri, sono divise in ordine alfabetico. Ricopio nomi e numeri di telefono. Alcune persone non so nemmeno chi siano ma continuo imperterrita.

Ad un certo punto, la mia gatta si gira di scatto e rovescia un bicchiere d’acqua. La carta comincia ad assorbire il liquido, mi cola tra le gambe, gocciola sul pavimento. L’inchiostro sull’agenda si espande, i numeri si accavallano gli uni sugli altri. Io continuo a scrivere; la carta è molle e si buca sotto la punta della penna, si piaga come una bruciatura sulla pelle. Sento un cane che abbaia, le mani bagnate, la destra coperta di strane bolle. Ripenso alle cabine rosse e bianche, a quella gengiva, a quella ferita sempre aperta.
Poi, come sempre, mi sveglio.

martedì 24 dicembre 2013

Diamond Dogs

Apro la casella gmail. Le stelline gialle si susseguono, sembra di stare in una puntata di Star Trek. Premo "cestina" continuamente - non mi interessa un buono sconto per una mastoplastica, niente cena per due in ristorante messicano, niente presentazione di un libro la cui copertina è scritta in Comic Sans, spam, spam, spam. Poi, a un certo punto, un'e-mail attira la mia attenzione. Il mittente è testualmente: Tony Visconti. Per chi non lo sapesse, Tony Visconti è il produttore storico di David Bowie. Mettiamola così: se David Bowie è Dio, Tony Visconti è l'arcangelo Gabriele. Quindi l'arcangelo Gabriele mi ha appena mandato una mail. In questa santissima mail c'è scritto che David Bowie si presterà a un'intervista telefonica con me alle mie due del pomeriggio. Quindi, alle due del pomeriggio intervisterò Dio.

Mi lavo e mi profumo come se David Bowie potesse captare con le sue santissime narici il bagnoschiuma dalla cornetta del suo santissimo telefono. Solitamente sostengo che il meglio del mio lavoro risieda nel fatto che posso permettermi di passare le mie giornate in pigiama, o che al massimo debba cambiarmi maglione per mostrarmi a mezzobusto su Skype, mentre in gran segreto indosso ancora i pantaloni del pigiama. Ma oggi non è così. Un'intervista con Dio non può essere condotta in pigiama.
Mi vesto con cura. Sorrido allo specchio e controllo di non avere nulla tra i denti. Sono le tredici e cinquantasette. Mancano tre minuti e il mio telefono squillerà e qualcuno mi passerà David Bowie.

Niente panico. Uno due tre - prova. Fisso il telefono come un credente fisserebbe la finestra del Papa alla vigilia di Natale. Lo fisso così tanto che mi bruciano gli occhi. E poi, finalmente, squilla.
Lascio passare qualche secondo per non dare l'impressione di essere lì da ore, e poi rispondo.
-Are you ready?
Mai stata più ready di così.
Sento un rumore, il telefono passa di mano ed eccolo.
-Hello?
Mi sciolgo come neve al sole. Vorrei dirgli di cantarmi Station to Station lì, subito, senza introduzioni. Cantami quello che vuoi, David, anche Old McDonald Has a Farm. Silent Night. Il pulcino Pio. Poi, però, succede una cosa strana.

All'improvviso non sono più nella mia stanza. Ho ancora David Bowie al telefono, ma sono in un prato verdissimo. Mentre David Bowie parla, un sacco di bassotti grassi dal pelo rossiccio corrono contro di me. Mi sembra di stare in una di quelle gif animate in cui animali grassi fanno cose strane. In questa gif animata un fiume interminabile di bassotti grassissimi corre verso di me, mentre David Bowie mi racconta The Next Day al telefono. Dio parla e i bassotti m'assalgono, si dimenano, muovono le loro zampette corte, sembrano volare grazie alla combinazione tra la loro bassa statura, la gravità e le orecchie troppo grosse. Mi viene da ridere ma non posso, perché c'è David Bowie al telefono. Mi viene in mente una tristissima battuta sui bassotti e Diamond Dogs e devo reprimere una risatina. Uno due tre - calma.

Poi apro gli occhi ed è la vigilia di Natale.

giovedì 12 dicembre 2013

Lilac Wine


Sono nella casa di un uomo che non ho mai visto, eppure mi sembra di conoscerlo benissimo. Non ne sono sicura ma ne avverto il sentore; sembra quasi un retrogusto amarognolo sulla lingua. È in cucina e sta tagliando una grossa cipolla bianca in minuscole fettine, che si abbattono sul tagliere di legno l’una dopo l’altra senza fare rumore. Il coltello che tiene in mano è grande e affilato e la lama riflette il globo del lampadario. A un certo punto, l’ultima fettina di cipolla si tinge di rosso. L’uomo s’è tagliato un dito e adesso mi guarda. Il mio sguardo corre dai suoi occhi alla bolla di sangue che si sta formando sul polpastrello. Penso a come sarebbe sfiorarla di un millimetro e disfare l’equilibrio precario della superficie scarlatta.
-Vai in salotto mentre finisco di cucinare, mi stai distraendo, è colpa tua
mi dice, e io mi alzo in silenzio. In salotto, di fronte al divano, c’è un armadio nero. Un’anta è socchiusa. Mi avvicino e lo apro. Davanti a me si dispiega una serie di coltelli dal manico d’acciaio di varie dimensioni. Cerco di abbracciarli tutti con lo sguardo ma non ci riesco. Immagino come devono sembrare minuscoli riflessi nell’oscurità della mia pupilla e rabbrividisco. Dalla cucina, sento il rumore delle cipolle lasciate a soffriggere in agonia nell’olio bollente. Mi viene improvvisamente la nausea. Devo vomitare. Apro la porta di quello che penso sia il bagno e, non appena la richiudo, mi rendo conto di non essere più nella casa di prima.

Davanti a me si srotola una strada statale fiancheggiata da tronchi d’albero bruciati, reduci senza dubbio da un incendio devastante. I loro monconi cercano di protendersi il più possibile verso il cielo, neri come il carbone, ma il risultato è grottesco. La nebbia li inghiotte uno ad uno. La riga bianca spartitraffico che parte dai miei piedi si perde dopo pochi metri. Fa freddo, e io mi accorgo di non avere addosso altro che un leggero vestito estivo. Rabbrividisco e mi stringo in un goffo abbraccio. Penso – Sono sola. Ma non è vero.
Mi bastano pochi passi per incontrare una donna.
È seduta sul ciglio della strada e sulle labbra porta un rossetto di un rosso così acceso che mi dà le vertigini. Mi sembra una cosa così oscena che sono costretta a distogliere lo sguardo per un attimo, prima di analizzarla. È giovane e bella. È bionda, ha lo smalto scheggiato sulla punta delle dita e stringe tra le mani una borsetta di cuoio. Attorno agli occhi ha due cerchi nerastri, non capisco se l’abbiano picchiata o se non dorma da giorni. Di punto in bianco apre la bocca e sospira: le labbra rosse si dischiudono e noto che uno degli incisivi è rotto in un angolo. Non so perché, ma quel particolare mi turba più del colore del rossetto. Un brivido mi corre dalla nuca alla fine della colonna vertebrale.

-Chi sei?
dico. Lei mi guarda appena e si porta un dito alle labbra nel gesto del silenzio.
-Sta morendo
mi dice, indicando un punto davanti e sé. Riesco a distogliere un attimo lo sguardo dalla sua bocca e a guardare in direzione del suo dito. Accucciato sul cemento, in mezzo alla strada, sta un piccolo cerbiatto.
È quasi immobile, non fosse per il petto che, impercettibilmente, si muove su e giù. Ha gli occhi neri spalancati e riesco a sentire la sua paura come spilli sulla pelle. Mi sembra che il sangue nelle vene scorra più denso del solito.
-Cosa gli è successo?
-L’hanno ferito, non c’è più niente da fare. Tra qualche ora sarà morto.
La ragazza si accende una sigaretta. La fiamma dell’accendino le illumina il viso per un secondo, poi rimane solo la punta arroventata della sigaretta. Vengo presa da un irrefrenabile scatto d’ira.
-E tu te ne stai qui senza fare niente? Lo guardi morire?
Lei mi guarda con l’indifferenza negli occhi.
-A volte non c’è proprio nient’altro da fare che guardare le cose morire.
La nausea ritorna. Il cerbiatto mi guarda, come se potessi fare qualcosa per salvarlo. Sono troppo vigliacca per ucciderlo. Mi tremano le mani, reprimo un conato.

Poi, all’improvviso, sento una voce dietro di me mi chiama.
-
È pronto, puoi venire in cucina adesso.
Mi giro e mi ritrovo di nuovo nel salotto. Del cerbiatto e della ragazza bionda, non c’è più alcuna traccia.
L’uomo mi guarda con la testa inclinata verso destra. Mi porge un calice di vino denso e di un rosso troppo acceso. Conosco quel colore: l’ho visto pochi istanti fa sulle labbra di quella ragazza.
-Hai fame?
Annuisco.

mercoledì 4 dicembre 2013

David Foster Wallace e il Muro di Berlino





È
una mattina tanto impregnata di noia che quasi facciamo fatica a galleggiare. Parlo al plurale perché non sono sola: seduto accanto a me sta David Foster Wallace. In testa ha la sua tipica fascia da tennis, i capelli avrebbero bisogno di una lavata, il sorriso è un po’ sornione. Mi chiedo se si sia appena fatto una canna. Tra le mani stringe la mia tazza preferita dell’Ikea con una bustina di tè verde immersa nell’acqua bollente.
Io mi lamento. Vorrei avere un naso diverso, mi sono stufata del mio. Ieri sera mi sono guardata allo specchio e mi sono resa conto di non volere più il mio naso, ma che ci posso fare? Mica lo posso impacchettare e rispedire al mittente. “Mi sa che me lo devo tenere” dico a David con aria funerea, mentre smanetto sul portatile.

Lui sbuffa. Appoggia la tazza sul pavimento e dal nulla, con una mossa da prestigiatore, tira fuori una valigetta di cuoio marrone. La apre e – meraviglia! Allineati uno dietro l’altro, come piccoli soldatini in attesa, stanno nasi di diversa fattura: grandi, piccoli, aquilini, appuntiti, ce n’è per tutti i gusti. Dei piccoli nastrini li tengono fermi. Rimango a fissare affascinata il contenuto della valigetta e ringrazio David. Lui mi guarda con un sopracciglio alzato. “Senti, non è che voglia farmi gli affari tuoi, ma non è tanto bello che tu voglia cambiare naso. Hai un bel naso. Poi nella vita bisogna imparare ad accettarsi, non è che puoi sempre avere quello che vuoi, lo diceva anche Mick Jagger. Che ne sai che magari un giorno ti sveglierai e rimpiangerai il tuo vecchio naso? Sei cresciuta con lui. E poi te la ricordi la storia del naso di Kovalev, quella di Gogol? Che faresti se fosse il tuo naso a stufarsi di te?”

Stavolta sono io a sbuffare. Continuo a guardare i nasi, li sfioro con la punta delle dita. Sono morbidi. Mi ricordano dei tortellini. “Secondo te quale mi starebbe meglio?” gli chiedo sognante.
In quel momento si accende la televisione. Si accende proprio da sola, come nei film horror, solo che è mattina quindi non ci impauriamo più di tanto.
C’è un’edizione speciale del telegiornale. Le immagini sullo schermo ci mostrano tafferugli, persone con picconi intente a spaccare un muro. Tirano giù i mattoni, passano da una parte all’altra del muro, lo scavalcano, si abbracciano, piangono. Una voce fuori campo ci informa che è stato appena abbattuto il Muro di Berlino.
“Ma cosa dicono! Il Muro di Berlino è già caduto” dico un po’ infastidita. David sorride con l’aria di chi pensa che sei un completo idiota.
“E che vuol dire, scusa. Il tuo ragionamento fa acqua da tutte le parti. Tu non sei mai caduta? Questo vuol dire che non puoi cadere di nuovo?”
Mi sto innervosendo. Ma che dice questo? E meno male che lo osannano come una delle menti più brillanti del Novecento. Wittgenstein deve avergli dato alla testa.

In quel momento suonano il campanello. David sobbalza e con il piede rovescia la tazza sul pavimento. Lo guardo in cagnesco e vado ad aprire la porta di casa. Mio papà è sulla soglia, sorridente. Ha in testa un berretto color sabbia e sulla spalla una canna da pesca inguainata in una custodia nera.
“Ho pensato di chiederti se ti andava di andare a pescare per festeggiare.”
“Festeggiare cosa?”
“La caduta del muro di Berlino!”
Dalla mia stanza, arriva una voce soffocata.
“Che fai, allora, questo naso lo vuoi o non lo vuoi?”

Mi sveglio.

martedì 19 novembre 2013

Horror vacui

Non riesco a respirare.

Nel sogno non riesco a repirare, anche se è probabile che stia boccheggiando anche nella realtà; mi immagino a bocca aperta, le labbra aride e in tensione, il petto che si affanna come un animale braccato. Nel sogno sono stesa su un pavimento freddo, lo sento sulla schiena, liscio e gelido come l'alito di un morto. Mi ci vuole qualche minuto per rendermi conto che non sono semplicemente distesa, ma letteralmente inchiodata al suolo, crocifissa alla forza di gravità. Riesco in qualche modo ad alzare la testa e guardarmi la mano destra: al centro del palmo c'è un chiodo d'argento. Niente ruggine, niente sangue: una perfetta operazione chirurgica.

Abbasso la testa e mi sforzo di respirare. Non andare in panico. Non farti prendere dalla nausea. Se vomiti adesso è finita. Serro le palpebre e, su uno sfondo rossastro venato di nero, ballano scomposte centinaia di stelline luminescenti. Con un po' di immaginazione, sembrano tanti girini su un fondale d'argilla. Cerco di mettere ordine nel caos delle sensazioni che mi affollano mente e corpo. Disgusto, prima di tutto. Paura, certo. Dolore? No, non penso sia dolore. Se sto ferma, non avverto le ferite; non accuso la posizione innaturale in cui mi trovo.

Mi rendo conto di avere sete, una sete incredibile. Sopra di me c'è solo una grande luce bianca. Dove mi trovo, proprio non so dirlo. Perché mi trovo qui? Non lo so, non so nemmeno questo. Mi sembra che in un attimo tutto quello che ho imparato nella vita non conti più niente. Cosa me ne faccio dei libri, delle addizioni, delle radici quadrate, adesso che sono intrappolata in un posto che non conosco, senza la minima idea di chi mi ci abbia costretta?

Sento un fruscio sulla coscia. Cerco di alzare la testa di nuovo. Lo sforzo mi costa una fitta al collo. Cerco di mettere a fuoco il mio corpo abbandonato al pavimento e vedo un grosso ragno nero sulla mia gamba. Si muove con agilità, sembra che danzi. Ringrazio Dio di avere solo due gambe - il supplizio insensato della crocifissione mi sembra eccessivo per quattro arti, figuriamoci otto. Non mi fa paura. Mi chiedo solo cosa voglia da me; mi attraversa l'idea che forse voglia intrufolarsi al mio interno, farsi spazio nella mia bocca per risalire nella testa e annidiarsi lì, costruendo una ragnatela attorno al mio cervello. Al pensiero vengo colta da un conato. Serro le labbra e comincio a pregare qualche dio sconosciuto di liberarmi da questo supplizio. Ti prego, per favore, ti scongiuro.

Poi ad un certo punto mi ritrovo seduta. Sulle mie mani non ci sono segni dei chiodi. Me lo sono immaginato? Sono in una stanza bianca, su una sedia bianca. Davanti a me, sul pavimento, sta un vaso di vetro. Dentro al vaso, sta il ragno. Si arrampica sulle pareti e poi ricade sul fondo. Sembra furioso. Ripete il gesto meccanicamente mille volte. Lo ripeterà finché le zampe cederanno una dopo l'altra. Provo allo stesso tempo repulsione e attrazione per quell'essere intrappolato. Prendo in mano il vaso, lo scuoto: il ragno cade sul fondo e cerca di rimettersi in piedi. Mi chiedo se sia il caso di liberarlo oppure no - poi penso al mio cervello, alla ragnatela, alle sue zampe sulla mia pelle. Appoggio il vaso al suolo e me ne vado.